Con la conoscenza, le droghe hanno risarcito il cervello più di tutto il danno che gli hanno provocato?
Gian Luigi Gessa
Medicina delle Dipendenze è nata nel 1993 col
nome di Medicina delle Farmacotossicodipendenze,
un lungo nome mutuato dalla nuova disciplina
istituita in Italia nel 1992 dal Ministero della
Sanità. Ventitré anni fa eravamo consapevoli che
l’uso delle droghe e la tossicodipendenza non
sono solamente una condizione medica e che
fattori psicosociali rendono le persone vulnerabili
a sviluppare la dipendenza, ma scegliemmo di
privilegiare l’informazione del settore medicobiologico
partendo dalla considerazione che,
mentre in questo campo hanno luogo progressi
delle conoscenze a un ritmo meravigliosamente
vertiginoso, esiste uno scollamento tra le
conoscenze dei ricercatori e la pratica degli
operatori, nei quali sopravvivono incertezze,
disinformazione e pregiudizi. In Italia mancava
una tribuna nella quale affrontare i molteplici
problemi nel settore medico-biologico delle
tossicodipendenze, e questi venivano spesso
affrontati su quotidiani, rotocalchi e tribune
televisive, in modo emotivo, strumentalmente
polemico, con pregiudiziali ideologiche e con
interventi episodici, dispersi, non approfonditi.
Nei suoi numeri monografici trimestrali la
rivista ha trasmesso ai suoi lettori l’evoluzione
delle conoscenze avvenute nella medicina delle
dipendenze negli ultimi vent’anni. Il nome stesso
è stato abbreviato quando si è scoperto che il
desiderio irresistibile per l’alcol, l’eroina, la cocaina,
il gioco d’azzardo, il cioccolato, lo sport estremo
hanno un comune meccanismo nel cervello e
costituiscono una problematica comune.
Abbiamo affrontato in maniera monotematica,
con la competenza di autori autorevoli, gli
argomenti più caldi e controversi che hanno
interessato chi lavora nella clinica, nella ricerca e
nella politica delle dipendenze. Rivedendo quelle
monografie si capisce quanto le conoscenze
scientifiche siano state e siano alla base di pratiche
mediche e strategie politiche razionali, mentre
il disconoscerne l’importanza ha permesso
politiche e pratiche mediche basate su pregiudizi
e ideologie. Nel 2002 la rivista ha presentato
i principi clinici per l’utilizzo del metadone
elaborati da un gruppo di esperti, convenuti
a Pietrasanta da differenti regioni italiane, con
esperienze, punti di vista e competenze diverse.
Con queste linee guida si cercava di uscire dalla
variegata “via italiana” all’uso del metadone per
uniformarsi alle originali direttive dei pionieri:
Vincent Dole, Marie Nyswander, Bob Newman
e Mary Jeanne Kreek. Il consensus di Pietrasanta
era improntato alle conoscenze scientifiche che
concepivano la dipendenza dall’eroina come
una malattia cronica prodotta dalla prolungata
azione delle droghe sul cervello e caratterizzata
dalla ricerca e dall’uso compulsivo della droga,
nonostante le conseguenze negative che questo
produce. Il consensus differiva dalle direttive
dell’allora recentissimo decreto ministeriale del
25 giugno 2002 che aveva una visione psicosocio-
moralistica della tossicodipendenza, intesa
come un male da estirpare, un comportamento
deviante da modificare. Il mantra dei “curatori”
era: il metadone è una droga, somministrarla ai
soggetti dipendenti dall’eroina è lo stesso che
curare con il cognac un alcolista che beve whiskey.
Il Ministero della Sanità aveva proibito l’uso del
metadone per un periodo superiore ai sei mesi.
Se non guarisci entro quel periodo significa che la
“cura” è sbagliata. La nostra speranza, allora come
ora, era quella di contribuire a modificare nella
testa di qualche autorevole collega e politico il
luogo comune che il metadone sta all’eroina come
il whiskey al cognac.
Abbiamo cercato di spiegare che il metodo
UROD non era, come recita l’acronimo, una
rapida guarigione dall’eroina ma un furto
crudele ai danni dei familiari dei pazienti.
Abbiamo tempestivamente affrontato il tema
della gravidanza, che riguarda quelle donne
che non tollerano l’ansia, la nausea, l’insonnia
in gravidanza e sono incerte tra la “medicina”
del medico, la droga o la sofferenza. La rivista ha
sostenuto l’uso degli animali nello studio delle
dipendenze disobbedendo all’anatema di Cartesio
(Non c’è peccato mortale che allontani di più gli spiriti
deboli dal retto cammino della virtù che ritenere che
l’anima delle bestie sia consimile alla nostra) o - si
parva licet – alle certezze di pensatori come Michela
Vittoria Brambilla o Alessandro Sala (Gli animali non
si drogano, non usiamoli per i test su alcol e fumo…
Uno spreco di risorse che potrebbero essere usate
per aiutare le persone a smettere). Non avrebbe
stupito Charles Darwin scoprire che tutte le droghe
che piacciono all’uomo, piacciono anche ai topi, ai
ratti, alle scimmie. Studiarne gli effetti su un cervello
più semplice del nostro ha svelato perché all’uomo,
come agli animali, piace il cibo, il sesso e la violenza e
perché l’uomo diventa addictus al junk food, al gioco
d’azzardo, al sesso virtuale e perché gli adolescenti
sono così vulnerabili alle cose proibite.
Abbiamo difeso senza pregiudizi l’ipotesi della
legalizzazione della cannabis prima che gli Stati Uniti
ne concedessero l’uso in medicina e la rendessero
legale in molti Stati, ma abbiamo anche espresso
la preoccupazione che queste politiche debbano
proteggere gli adolescenti, che sono i veri clienti degli
spacciatori. Quelli che hanno a cuore una riduzione
dei consumi di tutte le droghe temono che coloro
che gestiranno il mercato legale non abbiano lo
stesso interesse, come dimostrano le multinazionali
del tabacco. Negli Stati Uniti, i bambini - cioè i futuri
fumatori - conoscono il pupazzo Joe Camel meglio
di Topolino.
Abbiamo difeso la cannabis dalla demonizzazione ma
abbiamo anche criticato la sua totale assoluzione e il
suo uso nella medicina senza rationale scientifico e
intendiamo criticare la santificazione del cannabidiolo
come panacea. La nicotina è una droga che uccide
col fumo. A questo riguardo abbiamo fatto l’apologia
della sigaretta elettronica, chiarendo che si tratta di
un’invenzione straordinaria per salvare la vita di quei
fumatori che non vogliono o non possono smettere
di assumere nicotina; non è uno strumento ideale
per smettere di fumare perché ha tutte le qualità per
mantenere vivo il ricordo della sigaretta, non per farla
dimenticare.
La rivista ha rappresentato le droghe prevalentemente
per i loro effetti sulla salute ma non ha censurato
la nostra ammirazione per il loro ruolo nella
comprensione del cervello. Come eravamo alla fine
dell’Ottocento quando il giovane Sigmund Freud
provò su sé stesso la cocaina? Così ne descrive gli
effetti: “Una sensazione esilarante e una euforia
durevole che non presenta alcuna differenza da quella
di un individuo normale. Quasi non si riesce a credere
di essere sotto l’influsso di qualsivoglia sostanza”. Era
implicita in quella acuta osservazione la domanda: la
normale euforia, la felicità, è mediata da una sostanza
chimica? Allora quella domanda era intempestiva
perché il cervello era ancora “disabitato”. Come
eravamo negli anni Settanta del secolo scorso quando
Burton Angrist e Samuel Gershon hanno prodotto
con alte dosi di amfetamina o cocaina una psicosi
paranoidea in soggetti “volontari”, indistinguibile da
quella naturale? Come Freud si sono chiesti: anche
la pazzia è mediata da una sostanza chimica? Come
eravamo nel 1973, quando Solomon Snyder ha così
commentato la scoperta dei recettori della morfina
nel cervello del ratto o dell’uomo? “La natura non è
così pazza da aver creato dei recettori per una droga”.
Le endorfine sono lì per quei recettori. La copertina
della rivista TIME del 1997 titola: How we get addicted
to sex, drugs, drinking, smoking. Vent’anni fa l’alcol
e la nicotina dovevano essere distinti dalle droghe
proibite.
Credo di interpretare la preoccupazione di lettori
e tossicodipendenti impazienti: le tumultuose
scoperte delle neuroscienze non hanno ancora
generato una medicina per una delle più devastanti
tossicodipendenze, quella dalla cocaina. Non avete
ancora scoperto il “proiettile magico”, quella molecola
che Paul Ehrlich cercava per uccidere il germe della
sifilide. Ma il “germe” della dipendenza dalla cocaina
è più importante e complicato della spirocheta pallida
e ucciderlo può significare uccidere il germe della
felicità. Ad ucciderlo Eric Nestler e altri neuroscienziati
stanno arrivando.