Almeno un morto in meno. Almeno qualche ragazzo in meno in piazza ad attendere il pusher e l’eroina. Questa, in estrema sintesi, la dichiarazione di chiunque, operatore della prevenzione o agenzia di comunicazione, si trovasse ad esplicitare l’obiettivo del suo progetto o della sua campagna pubblicitaria dagli anni Ottanta sino alla prima metà degli anni Novanta. In quegli anni la droga rappresentava in maniera emblematica (a volte esaustiva) ciò che veniva tematizzato come il disagio giovanile. Dopo gli anni Settanta, decennio nel quale i movimenti ed il protagonismo giovanile avevano segnato profondamente la cultura, la società e la politica italiana, arrivano gli anni del “riflusso” e con essi compare il consumo di oppiacei (in particolare di eroina) in ampie fasce della popolazione giovanile. Sono gli anni in cui sembra perdere di senso, in sociologia, l’approccio della scuola struttural-funzionalista, che spiegava il fenomeno come il portato della frustrazione di appartenere ad una determinata classe sociale, di possedere un determinato reddito, di vivere in un determinato ambiente o in un determinato quartiere; al suo posto si afferma una lettura inedita che si riferisce ad una nuova categoria, frutto dei mutamenti sociali in atto dal secondo dopoguerra: “Ad una ad una cadono dunque tutte le ipotesi interpretative legate al modello strutturalista, il quale sembra perdere in tal modo gran parte della sua forza esplicativa, a meno che non si proceda a ripensare l’ipotesi strutturalista in un senso del tutto nuovo, proprio a partire dalla sola variabile che oggi rimane ancora a rendere ragione del fenomeno: la condizione giovanile in sé, intesa come nuova classe sociale emergente dalla società del benessere.”