Come molti dei lettori certo sapranno, negli
ultimi tempi non è stato possibile aprire
un giornale, anche di carattere scientifico
sull’addiction, o seguire un notiziario televisivo
senza venire a conoscenza di un nuovo fatto di
cronaca legato alla dipendenza da oppioidi negli
Stati Uniti e non solo. In genere si è trattato
di cantanti o divi del cinema, che a fronte di
un uso smodato di oppiacei non sono ricorsi ai
trattamenti e sono morti per overdose. La crisi
legata all’utilizzo dei ‘pain killer’ o come chiave
d’ingresso nel mondo dell’addiction o come rifugio
da un sistema di trattamento non ottimale
ha spaventato operatori sanitari e policy-maker,
condizionando forti reazioni emozionali. C’è
chi, addirittura, ha tirato un sospiro di sollievo
quando gli ingressi in trattamento metadonico a
seguito dell’uso di eroina, negli Stati Uniti, hanno
ripreso il sopravvento sui casi di dipendenza
iniziati con l’uso di ‘pain killer’.
Tutte le organizzazioni sanitarie si sono date
un gran da fare per cercare di fermare questa
epidemia di overdose. Negli Stati Uniti molte organizzazioni
governative hanno preso posizione
cercando di rilanciare i trattamenti metadonici
e la diffusione degli antagonisti degli oppiacei.
In Italia, gli organizzatori di politiche sanitarie
hanno condiviso subito il ricorso agli antagonisti
degli oppiacei, in formulazioni facilmente utilizzabili
da personale non medico, per cercare
di arrestare la progressione del numero delle
overdose.
Ovviamente non si può che essere favorevoli
all’introduzione sul mercato di strategie
salva-vita, specie se facilmente utilizzabili da
chiunque; tuttavia, nel caso delle overdose da
oppiacei, la prevenzione è sicuramente più efficace
e più facile da instaurare che non le pratiche
rianimatorie che sono necessarie a salvare
la vita a chi la rischia nell’overdose.
Un proverbio non del tutto Italiano dice che
‘quando il dito mostra la luna, lo stolto guarda il
dito’. L’incidenza delle overdose e la loro natura
letale sono semplicemente indicatori di qualcosa
che non va, sia nella promozione sociale
del trattamento, sia nella sua esecuzione, dal
momento che la sua realizzazione standard è
riconosciuta essere un forte baluardo contro
l’overdose. L’epidemia di overdose può essere
interpretata come un dito che mostra, senza
ombra di errore, la necessità di migliorare i trattamenti
standard, proprio al livello di base. In
altre parole, fino a quando i pazienti moriranno
di overdose da oppiacei o per cause correlate,
c’è qualcosa di più costruttivo da fare che aspettare
e sperare che i pazienti vadano incontro
all’overdose da eroina in un posto dove abbiamo
posizionato un rimedio (il naloxone). Si può
solo sperare che quando i dati relativi alle overdose
ci segnalano il bisogno di intensificare la
prevenzione, coloro che si preoccupano della
salute pubblica siano più creativi di quanto non
lo sono cercando di sviluppare delle tecniche
per risuscitare i pazienti, anche considerando
che la necessità di resuscitare un paziente può
essere facilmente evitata.
Il modo più efficace per prevenire l’overdose
è, infatti, quello di innalzare la tolleranza agli
oppiacei nei pazienti con ‘disturbo da uso di
oppiacei’ (OUD), qualunque sia la formulazione
e la cinetica della sostanza utilizzata. Un soggetto
con alta o meglio elevata tolleranza agli
oppiacei, quando medicalmente indotta, sarà
in grado di seguire in maniera appropriata il
programma riabilitativo e nello stesso tempo sarà
protetto dal rischio di overdose. In altre parole, i
cosiddetti dosaggi bloccanti sono efficaci nel trattamento
della dipendenza da oppiacei, ma anche
nella protezione dal rischio di overdose. E allora
come mai la stragrande maggioranza dei pazienti
in trattamento non lo è con dosaggi bloccanti?
Il problema non è solo facilitare l’ingresso in trattamento
di un numero sempre maggiore di pazienti
che ne hanno bisogno. Il problema è anche offrire a
questi pazienti un trattamento efficace e metodologicamente
corretto. Certamente facilitare l’ingresso
in trattamento dei pazienti mette in grado le istituzioni
di offrire ai cittadini una serie di vantaggi in
termini di sicurezza sociale, ma permette ai pazienti
di ricevere gli aiuti sociali dei quali hanno bisogno.
Ma sul piano sanitario non basta.
Ormai, in Italia non si assiste più da anni a quanto
avviene ancora negli Stati Uniti, dove flussi migratori
di pazienti si spostano da Stati proibizionisti sulle
cure a Stati vicini, più progressisti non solo sulle
cure. Ma c’è stato un tempo in cui queste trasmigrazioni
avvenivano anche in Italia, non sulla base
dell’accesso alle cure, che era garantito ovunque
sul territorio nazionale, ma sulle diverse metodologie
di cura praticate. In Italia non ci sono più moratorie
sull’apertura di servizi per gli eroinomani,
come attualmente accade nella Georgia invasa da
un numero sempre più crescente di pazienti del
Tennessee, che non possono curarsi a casa loro
per le politiche sanitarie di quello Stato.
L’urgenza degli interventi non ci esime, però, dal
seguire correttamente il metodo scientifico nelle
politiche sanitarie dell’assistenza ai pazienti affetti
da OUD. Nella pianificazione dell’assistenza sanitaria
dobbiamo sempre fare riferimento a tre capisaldi:
la prevenzione, il trattamento e l’osservanza
delle leggi.
Non solo, dobbiamo stare molto attenti a non sviluppare
trattamenti efficaci a spese di altri trattamenti.
Nel campo dell’addiction agli oppiacei
tre sono i farmaci utilizzabili. Gli antagonisti degli
oppiacei, in formulazione depot, sono farmaci molto
utili per chi si è disintossicato in prigione e vi
è rimasto per molto tempo. Questi soggetti sono
esposti al rischio di una ricaduta mortale quando
escono di prigione e possono essere protetti se
pre-trattati con questi farmaci. Tuttavia anche nel
caso dei pazienti incarcerati o dismessi dalle carceri
occorre garantire l’accesso a farmaci curativi come
il metadone e la buprenorfina.
Nonostante che il metadone sia e rimanga il ‘gold
standard’ per il trattamento a lungo termine della
dipendenza da oppiacei, c’è un numero consistente
di operatori che sembrano essersi dimenticati della
sua esistenza e che cercano di non includerlo nei
loro piani di trattamento. Qualcuno continua a dire
che non è un farmaco né sicuro né efficace.
In questo numero di Medicina delle Dipendenze
saranno discussi alcuni aspetti valutativi dei Servizi
Metadonici e alcune pratiche derivate dall’esperienza
clinica per un uso sempre più specifico del
‘gold standard’ sia nella dipendenza da oppiacei
che nella comorbidità psichiatrica, dedicando un
ampio spazio ad un farmaco, il levo-metadone, che
certamente non sostituirà a breve il ‘gold standard’,
ma che nel tempo, noi pensiamo sia destinato a
farlo.
In memoria del Prof. Alessandro Tagliamonte
Alessandro Tagliamonte è morto all’età di 80
anni il 4 Giugno 2017
La notizia della morte di Alessandro Tagliamonte,
questo pomeriggio, mi ha colpito come una pugnalata.
Ora ci sentiremo un po' più soli. Voglio
chiedere a tutti quelli che, senza pregiudizi, sognano
un mondo migliore per i nostri pazienti
di ricordare questo maestro e amico. Non sarà
facile continuare il nostro cammino, ma lo faremo
nel ricordo di questo uomo straordinario.