L’idea della dipendenza come malattia ha una storia ormai piuttosto lunga. Se ne trovano diversi riferimenti lungo l’evoluzione del pensiero medico. Ma è con Benjamin Rush (1746-1813) che questa concezione viene compiutamente esposta e quindi innestata nella pratica clinica e nella ricerca. Rush è il padre della psichiatria americana, nonché uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, firmatario della dichiarazione di indipendenza. Nel 1785 Rush pubblicava un pamphlet intitolato Inquiry into the effects of ardent spirits on the human mind and body dove riassumeva gli elementi della visione medica della dipendenza ancora oggi al centro dei criteri con cui viene diagnosticata. Scriveva Rush: “L’uso di liquori forti è all’inizio una scelta libera. Poi dall’abitudine prende forma una necessità”. Rush designa questa condizione come una malattia della volontà, caratterizzata dall’”incapacità di astenersi”, dalla “perdita del controllo”. Sono passati più di duecento anni da Rush ma l’idea della dipendenza come malattia è restata sostanzialmente la stessa. Più precisamente si dovrebbe dire che è tornata ad essere la stessa di Rush. Per buona parte del Novecento infatti l’aspetto prevalente del concetto di dipendenza ha riguardato i segni della tolleranza e della sindrome di astinenza, cioè quelle condizioni fisiche correlate alle alterazioni del funzionamento del sistema nervoso causate dall’assunzione reiterata di sostanze. Questa posizione era così pienamente coerente all’approccio medico, per il quale la malattia si individua in precisi sintomi somatici obiettivi in quanto espressione di una disfunzione a carico di un determinato organo o sistema organico. Negli ultimi vent’anni circa invece questo indirizzo si è progressivamente indebolito e ha prevalso la categorizzazione fondata sugli aspetti comportamentali delineati da Rush.