C’è da tempo ampio consenso sulla circostanza che la memoria sia “un aspetto fondamentale del funzionamento mentale” e, più recentemente, si stanno ampliando le evidenze del fatto che “modalità patologiche di memorizzazione e richiamo mnemonico sono alla base di numerosi disturbi mentali, tra i quali il disturbo post traumatico da stress (PTSD) e la dipendenza da sostanze”. In particolare, “nella dipendenza da sostanze, il ricordo dell’effetto della sostanza e dei suoi correlati ambientali, emotivi, neurofisiologici è alla base del craving, della ricaduta e della perdita di controllo nell’uso”. Sulla base di questa constatazione esperienziale e sperimentale, unita alla progressiva chiarificazione scientifica dei meccanismi neurobiologici del processo di memorizzazione, è possibile comprendere con maggiore precisione l’eziologia di numerosi fenomeni legati alle dipendenze (senza trascurare la forte variabilità individuale) e ipotizzare interventi terapeutici innovativi nel contrasto dei disturbi da abuso di sostanze. Interventi che si cominciano anche ad avviare nella pratica clinica e riabilitativa. Si può quindi affermare che, indipendentemente dal paradigma che si adotta per inquadrare il fenomeno della dipendenza da sostanze, il ruolo della memoria risulta rilevante, se non centrale. Il comportamento di ricerca, infatti, è dettato (anche) dal contatto con stimoli (di vario tipo) che riattivano il pensiero delle droghe assunte in precedenza. E l’azione su singoli contenuti mnemonici può essere un modo per interrompere il meccanismo della dipendenza. A questo scopo si possono considerare i diversi tipi di intervento sul processo di memorizzazione, tutti mirati a indebolire o a rimuovere determinate tracce mnestiche oppure ad attenuarne la risonanza e la portata emotiva e motivazionale. Va qui rilevato che gli studi considerati, i quali nei loro esordi risalgono a non più di trent’anni fa, sono tutti inizialmente legati ai tentativi di trovare terapie più efficaci per la cura dei traumi e del PTSD in particolare.