Migranti, fragili e dipendenze
Paolo Jarre
In questo numero – il primo di due fascicoli
dedicati al tema delle varie forme di fragilità
in rapporto alle differenti manifestazioni
dell’addiction – viene approfondito, sotto
diversi punti di vista, l’incrocio tra la condizione
di migrante nel nostro Paese e il consumo più
o meno problematico di sostanze psicoattive.
Nel successivo fascicolo analizzeremo più
nello specifico il rapporto tra altre forme di
fragilità (disabilità intellettive, disturbi mentali
preesistenti e così via) e addiction.
Abbiamo però voluto far precedere i contributi
da due articoli apparentemente “fuori tema”.
Il primo riguarda l’impatto sulle persone con
dipendenza da sostanze della più drammatica
condizione di fragilità, la guerra, guerra a cui
assistiamo impreparati, attoniti e impotenti nel
nostro Continente; sicuramente, pur essendo
una circostanza che investe l’intera popolazione,
comporta maggiore disagio e sofferenza per le
persone con una condizione di dipendenza,
soggetti i cui fragili equilibri e i complicati
percorsi trattamentali sono messi in crisi prima e
più di altri, anche perché spesso considerati non
così importanti da salvaguardare, come fossero
interventi “sacrificabili” in tempo di crisi.
La realtà descritta nel contributo di TalkingDrugs,
piattaforma online che fornisce notizie e analisi
sulle policy sulle droghe e riduzione del danno
nel mondo, è, per fortuna, parzialmente
migliorata nella seconda parte dell’anno, ma
ci sono ad oggi ampie aree dell’Ucraina in cui
l’accesso alle cure per i tossicodipendenti è
ancora gravemente compromesso.
Il secondo “fuori tema”– il lavoro di Francesco
La Bionda, giornalista di inchiesta per diverse
testate su temi di geopolitica e società – è
rappresentato da una puntuale e circostanziata
ricognizione relativa alla nascita e allo sviluppo
della produzione e del commercio di droghe
“chimiche” per eccellenza (metamfetamine)
nel paese che invece costituiva (e ancora
costituisce) il territorio di riferimento per la
maggior parte della produzione mondiale
della droga “naturale” per eccellenza, l’oppio;
questa inaspettata realtà in Afghanistan appare
paradigmatica della completa globalizzazione
che coinvolge appieno produzione, commerci
e consumi delle sostanze psicoattive e che
comporta la necessità di superare le classiche
rappresentazioni oleografiche che dividono
il mondo in aree di produzione e consumo di
prodotti “naturali” (le foglie di coca masticate
sulle Ande, il khat del Corno d’Africa e così via)
e aree in cui invece realizzazione e anche utilizzo
riguardano droghe in qualche misura artificiali,
“ingegnerizzate”.
Poi ritorniamo “in tema” analizzando con i
contributi di Paola Fierro e Massimo Urzi –
due giuristi rispettivamente coordinatrice
del Servizio antidiscriminazione di ASGI
(Associazione Studi Giuridici Immigrazione) e
rappresentante di Antigone (Associazione per
i diritti e le garanzie nel sistema penale) – gli
aspetti giuridici della complicata coesistenza
della condizione di migrante e di consumatore
più o meno problematico di sostanze psicoattive;
è descritto con evidenza come non sia in alcun
modo indifferente per il nostro contorto sistema
giudiziario trovarsi, in generale, a impattare con
la giustizia da cittadino italiano o da migrante
straniero e ancor di più se alla condizione di
straniero si assomma quella di consumatore di
droghe.
Una sorta di diffusa e pervicace presunzione
di colpevolezza attribuita d’ufficio per la
mera condizione di migrante sembra spesso
contribuire a innescare una sorta di profezia che
si autodetermina nella criminalizzazione dello
straniero “drogato e spacciatore”.
L’analisi di Maria Teresa Ninni – educatrice del
Drop In di Torino e rappresentante di ItanPud,
il network italiano delle persone che fanno
uso di droghe – dell’offerta trattamentale nei
Servizi per le Dipendenze italiani in favore
degli stranieri evidenzia una situazione ancora
molto disomogenea, con molte differenze su base
interpretativa in termini di quali interventi erogare;
in molti territori le complicazioni burocratiche
appaiono ancora ostacoli difficili da superare per
poter garantire ai migranti tutto l’armamentario
clinico e riabilitativo disponibile per i cittadini
italiani, come dovrebbe essere secondo i dettati
costituzionali; in particolare vi è maggiore difficoltà
per quanto riguarda la possibilità di praticare
inserimenti residenziali in Comunità terapeutica o
in altre strutture riabilitative.
Il lavoro di Luca Censi – responsabile dell’Unità
di prossimità della Cooperativa Centro sociale
Papa Giovanni XXIII di Reggio Emilia – descrive
accuratamente un fenomeno peculiare della
popolazione migrante proveniente dall’Africa del
Nord e dal Golfo di Guinea, il consumo di tramadolo,
una droga spesso in modo superficiale confinata dai
media nella definizione di “droga del combattente”
laddove se ne attribuisce il consumo alle diverse
bande coinvolte nella guerra civile in Libia.
Infine, il lavoro di Paola Finzi – psicoterapeuta
specializzata in etnopsichiatria – ci riporta alla
necessità imprescindibile di studiare il contesto di
provenienza delle persone migranti con problemi
di addiction per poter allestire con successo un
percorso trattamentale e riabilitativo; contesto inteso
nell’accezione più allargata possibile, comprendente
la storia e l’antropologia del paese di provenienza, la
storia familiare e personale, la cultura, l’istruzione, le
ragioni del progetto migratorio, i traumi patiti prima
e durante il viaggio e così via.
Tutti elementi che possono essere raccolti e gestiti
correttamente solo dotando i servizi di mediatori
culturali (che non siano solo traduttori) del paese
di origine e professionisti specializzati non solo sul
versante della malattia in sé.
Mi sembra un panorama ricco, il cui intento
principale è quello di indurre riflessioni che si
concretizzino, laddove possibile, in interventi
operativi per migliorare il livello delle prestazioni
alle persone che giungono per le vie più diverse nel
nostro paese e che hanno bisogno di assistenza per
una forma di addiction, indipendentemente dal loro
status, che può interessare questa o quella parte
politica (e solo di conseguenza la giustizia), ma che
poco dovrebbe riguardare gli operatori della salute.